Premessa: a parere di chi scrive, un gruppo che a 18 anni dall’uscita del primo disco riesce ancora a stupire praticamente tutti (nel bene e nel male), ha già vinto in partenza.
Chi conosce i Radiohead sa che non si sono mai seduti sugli allori: un decennio (gli anni ’90) trascorso come icone del rock alternativo, con dischi a scalare le classifiche e video in perenne rotazione in tv; quello seguente (“gli anni zero”) rifugiati volontariamente nei panni di band di nicchia, acclamata dalla critica e poco digeribile al grande pubblico, per potersi permettere di creare a proprio piacimento una musica sempre più sperimentale e indefinibile.
The King Of Limbs giunge all’improvviso, la sua esistenza viene annunciata a soli cinque giorni dall’uscita, che verrà inoltre anticipata di un ulteriore giorno senza nessun preavviso. Una storia simile a quella del precedente In Rainbows (annunciato nel 2007 a dieci giorni dall’uscita), di cui però musicalmente questo disco rappresenta quasi un’antitesi: dopo un album ricco di melodie, chitarre, pezzi orecchiabili (Bodysnatchers poteva addirittura guadagnarsi un posto d’onore in un dj set ballabile) e suoni quasi umani per una band che aveva fatto del binomio alieni/alienazione la sua ragion d’essere, ci ritroviamo fra le mani un’opera spiazzante, inquieta, difficile da decifrare e da descrivere.
Si parte fra le percussioni sbilenche e le pulsazioni ossessive di Bloom, per proseguire sulla stessa scia con il motivetto epilettico reiterato all’infinito di Morning Mr Magpie: un binomio iniziale all’insegna dell’agitazione e della paranoia, nonché dell’approccio ai limiti del dubstep che caratterizza tutto il disco. Dopo di che abbiamo, una di seguito all’altra, il pezzo più orecchiabile e vicino alla forma canzone (Little by Little), e quello più ricercato, Feral, che sembra la registrazione di suoni captati durante una gita nello spazio profondo. Su un’irrequieta base percussiva scandita da una fredda pulsazione, spuntano qua e là stralci di voci, note di synth e giri di basso.
Da qui in poi il disco si fa sempre meno nervoso e più soffuso: le percussioni che accompagnano il singolo Lotus Flower (corredato da un videoclip di Garth Jennings nel quale possiamo ammirare Thom Yorke nelle sue doti di ballerino da strada) sembrano una versione rallentata di quelle di Morning Bell e anche le tematiche sull’oblio recitate dal canto in falsetto risultano simili. Dopo il momento riflessivo di Codex, ballata spoglia e minimale, è la volta della spettrale (a partire dal titolo) Give up the ghost, nella quale spunta addirittura una chitarra acustica a supportare una sorta di dialogo fra il canto di Thom Yorke e un’insistente richiesta di pietà (don’t hurt me) di una voce persa nel nulla.
Il disco si chiude fra i riverberi di Separator, l’unico pezzo in cui sembra di respirare un aria più serena e solare; che si conclude ripetendo le parole “wake me up, wake me up”, come se ci si volesse risvegliare dal brutto e nervoso incubo in cui eravamo stati catapultati dai pezzi precedenti.
The King of Limbs è sicuramente un disco anomalo, difficile da assimilare, senza un pezzo che rimanga davvero impresso, con suoni e ritmi che a tratti appaiono ripetitivi (considerando che il disco dura poco più di 37 minuti) e che in molti punti danno l’impressione di trovarsi più dentro un opera del Yorke solista che non dell’intera band. Questo però non gli impedisce affatto di essere un bel disco, allo stesso tempo etereo e asfissiante, tetro e paranoico, spontaneo ed elegante, pervaso dal fascino di essere inspiegabile e ingiustificabile.
Ancora una volta i Radiohead riescono a sorprendere, a dividere e deludere i loro fan in modi sempre nuovi e, volenti o nolenti, a “costringere” tutti a parlare di loro.
di Roberto Interdonato
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