The Rolling Stones: Beggars Banquet (Decca, 1968)

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Dopo la parentesi sperimentale del ’67 gli Stones recuperarono una volta per tutte la loro vera natura, ritornando alla casa del grande padre blues e del rock n’ roll, suo degno figlio. Basta ricerche sonore, basta psichedelia, basta sonorità d’avanguardia e sperimentazioni lisergiche: per tutto il quinquennio ‘68/’72 non si divagherà più.

Beggars Banquet recensione Rolling stonesBeggars Banquet è il primo dei quattro LP che per unanime giudizio costituiscono l’apice compositivo dell’epopea Stones: un ensemble di canzoni dure e dirette come calci in faccia, minimali e sporche come solo pochissimi altri gruppi nella storia hanno saputo fare.

Da notarsi che Beggars Banquet, ultimo lavoro con Brian Jones ancora in organico, è un LP composto pressoché interamente da blues acustici: le chitarre elettriche fanno la loro apparizione soltanto in Stray Cat Blues e in qualche sporadico assolo.

Il blues da cui gli Stones allattano stavolta non è quello degli esordi, in linea con quello di Chicago, bensì il blues essenziale ed approssimativo, grezzo, sguaiato e viscerale del Delta del Mississippi. Le chitarre tornano a farla da padrone assoluto; l’esempio più alto in tal senso è costituito dal brano Jumping Jack Flash, coevo all’LP ma pubblicato esclusivamente su 45 giri secondo la voga dell’epoca: il suo immortale riff di chitarra, ruvido e rozzo al pari di quello di Satisfaction, la generale approssimazione esecutiva del brano e la tensione del canto ne hanno fatto fanno uno dei più grandi classici del rock di tutti i tempi.