Quanto segue è la cronaca di come The Big Bang Theory, fedele agli enunciati scientifici di cui è fiera e imbranata portavoce, è andata lentamente disperdendosi nel buco nero del “sequel a tutti i costi”, mantra hollywoodiano in questi tempi di cinghia stretta.
Come l’enorme carcassa spiaggiata di una balena che ha seguito la traccia magnetica sbagliata, oramai serve unicamente al foraggio di avvoltoi manager e di noi poveri e fedeli gabbiani, affamati delle strambe magliette di Sheldon Cooper o dei portachiavi col saluto vulcaniano di Spock.
Già dai suoi primi vagiti la sesta serie si offre, all’ostetrica, con la pelle rattrappita, i radi capelli bianchi e le manine già distrutte dall’artrite. Stile Benjamin Button. Con l’unica eccezione della fresca vita coniugale di Howard e Bernadette, troviamo (o meglio, ri-troviamo) il solito Raj, affetto dal solito mutismo selettivo –e in alcune scene è palpabile l’imbarazzo dell’attore nel recitarlo-, con la solita latente omosessualità che gli autori hanno provato, assai goffamente anche se col coltello tra i denti, di volta in volta a nasconderci.
Troviamo uno Sheldon più arrendevole ai dettami relazionali di Amy e meno odioso nel suo fanatismo scientifico, insomma più tiepido e incolore di quel vulcano di turbe psichiche che bucò gli schermi televisivi cinque anni fa. Dulcis in fundo, la stucchevole relazione tra Leonard e Penny continua a essere fondata sul nulla assoluto.
Per chi avesse il coraggio di guardarsi tutte e
Non ci resta che sperare nei figli di Howard e Bernadette e in quelli (rigorosamente in vitro) di Sheldon e Amy. Non conto quelli di Leonard e Penny perché, come profetizzò Sheldon nella prima puntata (bei tempi!), quei bambini saranno, oltre che intelligenti e bellissimi, anche immaginari.