Quando ho acquistato Harvest non avevo ancora 18 anni,
Era qualche giorno che quella sua copertina, marroncina e minimale (che a riguardarla adesso forse stilizza il cielo dell’Alabama con un sole rosso al centro, o forse no) mi perseguitava: mi era passata davanti sul catalogo Nannucci, forse per qualche miracolo veniva citata addirittura su Tutto Musica e campeggiava fra i dischi fondamentali del secolo su un paio di siti che all’epoca cominciavano a stuzzicare la mia curiosità verso tutto un magma di rock ”sotterraneo”, nel quale avrei passato i seguenti anni della mia vita a scavare.
Fu durante una gita scolastica di “orientamento universitario”, una veloce capatina in un negozio di dischi, ed eccolo… è lì sullo scaffale che mi fissa, è un segno del destino, è anche in offerta a 10 euro: devo averlo. Non ci arrivo con i soldi, mi faccio prestare 5 euro da una mia amica alto borghese (o meglio, appartenente a quella classe che oggi definiremmo dei “tamarri arricchiti”) che dopo aver visto cosa dovevo farci ribatte “se avessi saputo che dovevi comprare sto disco sconosciuto non te li avrei prestati”, prevedibilmente questa è una persona che oggi ho completamente perso di vista.
All’epoca la scelsi anche come mio pezzo rappresentativo per la prima compilation dell’Osteria di Kalporz, un forum che mi ha dato tanto in termini di cultura e di amicizie, e che catalizzava la maggior parte del mio tempo di permanenza sul web (poi anche quell’epoca è finita, ma successe tempo dopo e comunque è così per tutto).
L’album continua con la title track Harvest, che invece inserii in una musicassetta per la macchina: un neo-patentato ha decisamente bisogno di numi tutelari; quel ritmo cadenzato, simbolo della vendemmia, che a me sembrava così dolce e poetico fu definito da un mio amico (attualmente benzinaio e padre di famiglia, bravissima persona) “il ritmo di uno che sta in poltrona a farsi una sega”; a ripensarci oggi forse non aveva tutti i torti, direi che dipende dai punti di vista.
Mi ricordo la difficoltà nel digerire le atmosfere pesanti della seguente A man needs a maid, con inserti di pianoforte e archi disseminati ovunque (come anche in There’s a World), resi ancora più cupi dal fatto che a gestirle fosse un uomo di nome Jack Nietzsche, e quando sei un liceale puoi stare sicuro che incrociare un cognome del genere nei credits di un disco ti colpisce abbastanza; peraltro, “ad un uomo serve una domestica” suona latentemente maschilista, ma a leggere il testo probabilmente non è esattamente così.
Il disco continua regalando quasi con nonchalance capolavori immortali come Heart of gold e Old Man, gemme country a volte vivaci (Are you ready for the country?) e a volte malinconiche (Alabama), fino a concludersi con l’epica Words (Beetween the lines of age): composizioni di cui, seriamente, non posso essere io in questa sede a “spiegarvi” la bellezza e la poesia, semmai queste siano cose che possono essere spiegate con le parole. Peraltro ho anche finito gli aneddoti nostalgici e di stare qui a parlare di argomenti didascalici come la west coast, l’eredità del loner canadese e via dicendo francamente non mi va.
Fate così: prendete il disco, ascoltatelo d’istinto, come ho fatto io tanti anni fa, e basta. Penso e spero che non ve ne pentirete.
Tracklist:
2. Harvest
3. A Man Needs a Maid
4. Heart of Gold
5. Are You Ready for the Country?
6. Old Man
7. There’s a World
8. Alabama
9. The Needle and the Damage Done
10. Words (Between the Lines of Age)