Cieli immensi, e immenso amore. Scegli me fra i tuoi re…sono i cieli neri che io so, non si scioglieranno più. Cielo grigio su, foglie gialle giù. Dove va a finire il cielo? Si potrebbe continuare all’infinito a citare canzoni italiane nelle quali, prima o poi, fa la sua comparsa il cielo.
In compenso, né la musica né i volti dei ragazzi casertani che compongono Il cielo di Bagdad fanno venire in mente la guerra, e basta ascoltare il loro nuovo disco, Unhappy the land where heroes are needed or lalalala, ok., per rendersene conto. Anzi, a partire dalla natura semi-seria del titolo, che passa da una citazione di Brecht alla più classica delle “onomatopee” musicali, e finendo nel turbine di suoni e colori di cui sono piene le otto canzoni di cui è composto il disco, l’aggettivo che più si addice a quest’opera è “solare”.
Uno dei pregi maggiori delle canzoni proposte dal sestetto è quello di riuscire a sfuggire alla dicotomia “eccessivamente deprimente / eccessivamente cazzone” che fa apparire forzato e antiquato molto del rock alternativo odierno, catturando in una cifra stilistica unica e riconoscibile un insieme di emozioni dai toni distinti, come quando nell’apprezzare la bellezza cristallina di un paesaggio, con la brezza che ci accarezza la pelle, siamo pervasi da un ricordo malinconico o da una scintilla di nostalgia.
Certo, fra i pezzi affiorano di continuo influenze e citazioni
Ma la portata di questo disco non può certo esaurirsi nell’infinito gioco dei rimandi: la verità è che lo stile de Il cielo di Bagdad riesce ad essere assolutamente personale, e soprattutto ad apparire sincero: nessuna forzatura, nessun ammiccamento.
Unhappy the land where heroes are needed or lalalala,ok. è un disco allo stesso tempo vario e compatto, complesso e godibile, che l’ascoltatore può decidere di sezionare nota per nota, o di ascoltare perdendosi nella psichedelia campestre di questi pezzi, pensando che dopotutto, come diceva qualcuno, “passera’, passera’ anche se farai soltanto la la la” (ok?).