Cari amici, nasce oggi una nuova sezione di Pausa Caffé (Music History) che, con cadenza settimanale, proporrà un approfondimento sui dischi dei gruppi e degli artisti che hanno fatto la storia della musica del ‘900: un pretesto per recuperare – e perchè no, anche riscoprire o addirittura approcciare – quel patrimonio di suoni e umori che ha contribuito a delineare il volto della musica per come oggi lo conosciamo.
Quale ponte ideale tra l’epopea del blues e il rock contemporaneo, si è ritenuto di partire dal gruppo che per primo ha incarnato questa transizione:i Rolling Stones.
The Rolling Stones (England’s Newest Hit Makers)
(Decca, 1964)
“I Rolling Stones sono più di un gruppo: sono uno stile di vita”. Con queste parole, vera e propria dichiarazione di intenti trascritta sul retro della confezione dell’LP, il manager Andrew Loog Oldham presentava al mondo il primo, omonimo lavoro dei suoi pupilli. L’intento, così come per ogni altra trovata di Oldham, era quello di consolidare l’ascendente nomea dei cinque quali risposta selvaggia e sguaiata ai modi (almeno apparentemente) troppo inquadrati dei Beatles. Oltre che sulla propaganda effettuata dal manager-padre padrone, il clamore iniziale generato dal gruppo fondò principalmente sul modo di suonare: suonare e basta, sia chiaro, poiché la coppia Jagger-Richards all’epoca non possedeva ancora una definita identità compositiva.
La principale nota di disappunto deriva
Il lavoro d’esordio – così come tutti quelli del biennio ’64/’65 – è composto da rarissimi pezzi propri e da una caterva di riletture in chiave più indelicata di pezzi attinti dal repertorio classico blues e da quello di Chuck Berry, di cui i cinque bad boys si dichiarano fieri discepoli. Paradossalmente, però, le cover a risultare meno inselvatichite dal restyling operato dal gruppo sono proprio quelle attinte da Berry; sintomatica è la rilettura di Route 66, dove la primitiva carica rock blues del pezzo viene a perdersi in una versione di maniera affatto aiutata dalla voce ancora ingenua di Jagger, lontana anni luce da quello che sarebbe stato lo spirito dei lavori a venire: più incisiva, forse, la rilettura di Carol, dove l’energia del pezzo originale viene almeno in parte conservata.
Insignificanti, dal punto di vista squisitamente innovativo, le riletture di blues quali ad esempio I’m A King Bee di Muddy Waters; il gruppo è chiaramente in cerca di una strada sonora da battere ma è altrettanto evidente che si è ancora sospesi nell’incertezza tipica degli esordi. Il risultato è riscontrabile nello scarto esistente tra cover come quelle di Can I Get A Witness o Now I Got a Witness e la rilettura di Not Fade Away: a differenza dei primi due, anonimi brani, Not Fade Away si distingue, se non per il trascurabile arrangiamento sonoro, per il canto di Jagger, almeno in questo caso anticipatore della grinta dei lavori a venire.
Stesso dicasi per la cover di I Just Want To Make Love To You, notevole al punto tale da suscitare il plauso di Muddy Waters in persona. I pezzi “nuovi” sono due: Tell Me, a firma Jagger/Richards, e Little By Little, accreditata a Nanker Phelge e Phil Spector. Una curiosità: Nanker Phelge è lo pseudonimo utilizzato dal gruppo per designare i pezzi a firma Jagger/Richards i cui diritti venivano ugualmente ripartiti tra i membri ed il loro manager. Non c’è granché di travolgente, specialmente nei pezzi accreditati ai Nostri, ma la voglia di migliorarsi ed andare avanti è tangibile. E i risultati, oggi sappiamo, non avrebbero affatto deluso le aspettative.
Tracklist:
2. Route 66
3. I Just Want To Make Love To You
4. Honest I Do
5. Now I’ve Got A Witness
6. Little By Little
7. I’m A King Bee
8. Carol
9. Tell Me
10. Can I Get A Witness
11. You Can Make It If You Try
12. Walking The Dog