Un viaggio che riguarda tutti.

Quattro colpi di pistola davanti al consolato italiano di Istanbul, e l’idea che si tratti di una solitaria azione dimostrativa con accluse minacce per “l’uomo che ha denigrato il Profeta Muhammad”. Niente è più complicato di un viaggio papale, di regola. Il viaggio in Turchia di Benedetto XVI, alla fine di questo mese, fa eccezione alla regola, nel senso che è ancora più complicato del solito. E ci riguarda tutti, sebbene il premier italiano se la sia sbrigata con la ormai celebre gaffe americana: “Che vi devo dire? Se ne occuperanno le guardie svizzere”. Erdogan, il premier uscito dalle file del partito islamico e del quale si dice che è un De Gasperi turco, cioè un uomo di stato che sa interpretare in senso laico l’impronta anche religiosa del suo potere, ha deciso in modo molto poco degasperiano che non incontrerà il Papa. Lo ha deciso sapendo che la missione apostolica presso il Patriarcato di Costantinopoli è anche, per decisione bilaterale del Vaticano e della Turchia, una visita di stato in piena disciplina protocollare, con tanto di incontri “civili” nella capitale, compreso quello con il ministro degli Affari religiosi, quel Bardakoglu che fu la punta di diamante nella ondata di intimidazioni scatenata nel mondo arabo islamico dalla lectio magistralis di Regensburg. Erdogan sa anche bene che in relazione alla questione nazionale turca della domanda di adesione all’Unione europea il cardinale Ratzinger si era espresso qualche anno fa in modo negativo, suscitando risentimenti che in teoria non hanno niente a che vedere con le posizioni della diplomazia e dello stato vaticano oggi, a nuova veste pastorale indossata dal capo della chiesa cattolica, dopo l’elezione al soglio petrino, ma possono sempre essere abilmente rinfocolati. E all’assenza imprudente di Erdogan, che avrebbe dovuto fare scudo politicamente e istituzionalmente a una visita di valore storico, nella prospettiva del dialogo e del reciproco ascolto, si associano diversi punti di crisi nella relazione tormentata della Turchia con l’Europa, che fino a prova contraria è una delle patrie, e non la minore, dell’universalismo cristiano che Benedetto rappresenta. C’è stato l’incidente con i francesi, che hanno votato una legge douteuse contro il negazionismo del genocidio armeno. E un monito di Bruxelles che rende molto più difficile il già tortuoso percorso negoziale per l’adesione turca. Diplomazia e sala stampa vaticana fanno benissimo a gettare acqua sul fuoco e a minimizzare i rischi, ma le cancellerie italiana ed europee, per non parlare del dipartimento di stato americano, dovrebbero studiarsi bene il dossier di questo viaggio cristiano in una terra di frontiera dove l’originale formula della laicità islamica protetta dalla cultura dell’esercito, il modello di Ataturk, è alla prova della libertà di religione nell’epoca del conflitto tra civiltà. Che non è affare delle guardie svizzere soltanto, ma di tutti noi.

Ringrazio “Informazione Corretta” per la segnalazione di questo editoriale de “Il foglio” di oggi intitolato “Non bastano le guardie svizzere”.