Lunedì 23 ottobre ricorre il cinquantesimo anniversario della rivolta di Budapest, la battaglia per la libertà in Ungheria, repressa nel sangue dal comunismo. Mentre il resto del mondo pensava ad altro, in Ungheria venivano uccise decine di migliaia di inermi persone che lottavano per la libertà. Donne, bambini e anziani trucidati senza pietà. Questo post è in onore del valoroso popolo ungherese, che solo, abbandonato da tutti, lottò a mani nude contro il comunismo sovietico. Dobbiamo tenere vivo il ricordo di coloro che hanno mostrato al mondo intero la natura vile del comunismo.
Sfortunatamente non tutti hanno voluto capire, preferendo la menzogna alla verità, preferendo la repressione sovietica al grido di libertà del popolo ungherese. Così, mentre in Unheria si moriva e si faceva appello alla comunità internazionale, campioni di menzogne, corruttori della società, fanatici criminali ideologici di casa nostra hanno commentato così:
Palmiro Togliatti disse: “È mia opinione che una protesta contro l’Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, nel nome della solidarietà che deve unire nella difesa della cività tutti i popoli”. A Pietro Ingrao, che era andato a trovarlo subito dopo l’invasione per confidargli il suo turbamento, riferendogli di non avere dormito la notte, risponderà: “Io invece ho bevuto un bicchiere di vino in più”.
Giorgio Napolitano attuale Presidente della Repubblica italiano, (nel 1956 responsabile della commissione meridionale del Comitato Centrale del PCI) condannò come controrivoluzionari gli insorti ungheresi, su L’Unità si arrivò persino a definire gli operai insorti “teppisti” e “spregevoli provocatori” giustificando l’intervento delle truppe sovietiche sostenendo invece che si trattasse di un elemento di “stabilizzazione internazionale” e di un “contributo alla pace nel mondo”. A 50 anni di distanza da quei fatti Napolitano, nella sua autobiografia politica Dal PCI al socialismo europeo, parla del suo “grave tormento autocritico” riguardo a quella posizione, nata dalla concezione del ruolo del Partito comunista come “inseparabile dalle sorti del campo socialista guidato dall’URSS”, contrapposto al fronte “imperialista”.
Luigi Longo sostenne la tesi della rivolta fascista: “L’esercito sovietico è intervenuto in Ungheria allo scopo di ristabilire l’ordine turbato dal movimento rivoluzionario che aveva lo scopo di distruggere e annullare le conquiste dei lavoratori…”.
Che ottusità, che cecità, che falsità, che ipocrisia. Ma andiamo a vedere cosa è successo veramente.
Non parliamo della Rivoluzione ungherese. Parliamo dell’agonia ungherese. Poichè da quando a Budapest il regime comunista aprì il fuoco sulla folla inerme e tramutò il suo dissidio con il popolo ungherese da lotta politica, che non poteva vincere, in rivolta armata che, con l’aiuto dei sovietici, non poteva perdere, la distruzione della resistenza ungherese fu inevitabile. Sembrò che il mondo sentisse che non c’era altra possibilità di scelta - all’infuori della guerra atomica - che attendere osservando, nell’orrore e nello sdegno, il brutale, metodico sterminio di quell’infelice popolo da parte di una forza strapotente e di un vile tradimento.
E’ senz’altro comprensibile che noi, negli Stati Uniti, ci sentissimo arrossire per la nostra incapacità di far qualcosa in questo incubo. Non dovremmo comunue dimenticare, con tutta la nostra sofferenza e il nostro dolore, che dobbiamo al popolo ungherese più che pietà. Gli dibbiamo anche onore e gloria. Poichè la loro stessa sconfitta è stata un trionfo. Quegli studenti, quegli operai, qelle donne e quei bambini combattenti hanno fatto di più per sbarrare il domani al comunismo di quel che abbiano fatto prima di loro le armate o i diplomatici. Hanno dato di più e hanno fatto di più. Perchè quel che hanno fatto è stato di rilevare la brutale ipocrisia del comunismo perchè la vedesse tutta l’Asia, tutta l’Africa, tutto il mondo. Finchè in questi paesi vivranno uomini che ricordino il massacro dell’Ungheria, la Russia sovietica non potrà mai più fingersi davanti al mondo come benefattrice dell’umanità. I morti ungheresi le hanno strappato la maschera. Nelle loro tombe ne stringono ancora in mano i brandelli. ( Archibald MacLeish - LIFE - 1956)
Questa è una storia d’eroismo e di viltà, di sacrifici e soprusi, d’integrità e tradimenti. Questa è la storia della Rivolta di Budapest. Le eroiche gesta non dovrebbero mai cadere nell’oblio. Quando il ricordarle, però, suscita vergogna in chi poteva soccorrere i prodi e non lo ha fatto, e, soprattutto, quando il rammentare reca fastidio ai potenti si preferisce passarle sotto silenzio.
La guerra
Sul finire degli anni trenta l’Ungheria è una repubblica aristocratica, che non vede di buon occhio i regimi di massa impostisi in Germania e Russia. La vicinanza, le pressioni esercitate dal governo di Berlino e, soprattutto, la necessità di recuperare quelle terre sottrattele dall’infame trattato del Trianon, spingono la nazione magiara nell’orbita tedesca.
L’atteggiamento del popolo ungherese nei confronti dell’alleato può essere riassunto in una frase del conte Teleki, capo del governo ungherese nel 1941, “se la Germania perde perdiamo, se vince siamo perduti”. Il gentiluomo non poteva, certo, immaginare in quale inferno la sconfitta avrebbe trascinato la sua patria. Egli non vide la fine della guerra, tradito dal conte Csaki, capo del personale diplomatico, che consentì alle truppe naziste di attraversare l’Ungheria per invadere la Jugoslavia, al cui sovrano Teleki aveva garantito che una simile eventualità non si sarebbe mai verificata, si tolse la vita pur di non venir meno alla parola data.
L’Ungheria proseguì la guerra a fianco dell’alleato tedesco. L’esercito e il popolo ungherese, guidati dal partito delle croci frecciate s’arresero, dopo una ferrea resistenza, solo il 4 aprile 1945, quando tutta la nazione era nelle mani delle forze d’occupazione.
Il dopoguerra
L’Ungheria non rientrava, originariamente, nei piani di Stalin, per questo le truppe russe la trattarono, da principio, come una preda di guerra smantellando e requisendo tutto ciò che potevano per spedirlo in URSS.
Sotto la guida dell’Ammiraglio Horthy si era intanto costituito un governo provvisorio nel quale poco era lo spazio lasciato ai comunisti, questa carenza era, però compensata dal totale controllo esercitato dai compagni dello straniero sulle forze armate.
Le elezioni del 4 novembre 1945, un tonfo per i comunisti, che ottennero, nonostante la minacciosa presenza dell’Armata Rossa soltanto il 17% dei voti, furono un trionfo per il partito dei piccoli proprietari, che raggiunse il 57% dei suffragi.
Gli stalinisti, per i quali le elezioni non hanno mai avuto molto valore, scatenarono una violenta campagna, fatta di minacce, calunnie, torture e arresti immotivati, contro il partito uscito vincitore dalla consultazione elettorale, il leader dei piccoli proprietari, Ferenc Nagy, fu costretto all’esilio, il suo successore, Kovacs, venne semplicemento arrestato dall’Armata Rossa. Sulla poltrona di capo del governo s’installò il comunista Rajk.
Le successive elezioni, tenutesi il 31 agosto 1947, confermarono la forza d’animo e il saldo desiderio di libertà del valoroso popolo ungherese. La coalizione anticomunista ottenne il 45% dei voti, che sommato all’incredibile 8% del partito nazionalista dava ai movimenti della libertà la maggioranza assoluta. I comunisti, che avevano ottenuto il 22% dei consensi, sfogarono, col sostegno dell’Armata Rossa, la loro frustrazione sull’inerme popolo magiaro, si moltiplicarono i soprusi, le calunnie, gli arresti immotivati e gli esili.
Nelle elezioni del 15 maggio del 1949 i lacchè della Russia riuscirono finalmente a spuntarla. L’Ungheria s’avviava a diventare uno di quei complessi di miseria, sporcizia, paura e soprusi, passati alla storia col nome di democrazie popolari.
Lo stalinismo
Allarmato dal voltafaccia di Tito, Stalin era deciso ad impedire che altri leaders dell’Europa Orientale seguissero l’esempio del compagno jugoslavo. Cominnciarono così tutta una serie di processi, avvelenamenti e arresti, aventi lo scopo di mettere a capo delle nazioni satelliti uomini la cui obbedienza a Mosca fosse assoluta e cieca.
A farne le spese furono comunisti di provata fede, il polacco Gomulka venne incarcerato, giustiziati furono invece il bulgaro Kostov ed il rumeno Patrascanu. Le paure del capo dell’URSS non risparmiarono l’Ungheria, Rajk pagò con la vita i servigi resi a Mosca. Il successore di Rajk, Rakosi, martirizzò per quasi quattro anni il popolo ungherese. Le sofferenze dei magiari s’alleviarono, non di molto, solo dopo la morte di Stalin, quando in omaggio alle direttive di Mosca, Rakosi, che conservò la ben più importante carica di segretario del partito, affidò la guida del governo ad Imre Nagy. Rakosi ostacolò costantemente l’opera di Nagy e nel 1955 riuscì a farlo espellere dal partito.
La destalinizzazione
In Russia, intanto, qualcosa stava cambiando. Dopo tre anni di intrighi, complotti e macchinazioni a Stalin era successo Nikita Kruscev. Proprio il neo presidente dell’URSS presentò, durante i lavori del XX° congresso del Pcus, svoltosi a Mosca dal 14 al 25 febbraio del 1956, il famoso rapporto segreto su Stalin, che portò ad una condanna dello stalinismo. Le nazioni sottoposte ai sovietici vi videro la possibilità d’alleggerire il giogo cui erano costrette.
Le nontizie provenienti dalla Polonia, scarcerazioni di migliaia di prigionieri e Gomulka segretario generale del partito, esaltarono il popolo d’Ungheria che non esitò a scendere in piazza.
Gli ungheresi, guidati da studenti ed intellettuali, particolarmente attivi quelli dei circoli Petofi, chiedevano la riabilitazione di Rajk ed il ritorno di Nagy al governo. Rakosi rispose con l’unico linguaggio che conosceva, quello della violenza, gli stessi russi, il che è tutto dire, furono costernati dalla brutalità del boia rosso, e lo sostituirono con Geroe.
La decisione non poteva accontentare gli insorti, Geroe era un fedelissimo di Rakosi, che continuarono ad avanzare le loro richieste, Geroe dovette cedere e riabilitare Rajk.
300.000 persone parteciparono ai funerali di stato in onore del defunto leader, li guidava Imre Nagy.
La rivolta
Il 23 ottobre, un’immensa folla scende nelle strade di Budapest. E’ la sete di libertà a guidarla. Gli insorti iniziarono a distruggere gli invisi simboli della dittatura, le aborrite stelle rosse sono staccate dai muri o distrutte a colpi di pietra, le biblioteche del partito sono assalite e distrutte, i loro libri carichi d’odio e bugie inceneriti, studenti, operai e braccianti bruciano le bandiere rosse simbolo dell’oppressione.
In serata Geroe definirà i patrioti di Budapest delle canaglie, è la goccia che fa traboccare il vaso, vengono esplosi i primi colpi d’arma da fuoco, l’attacco contro il regime inizia davvero.
Quella stessa notte la statua di Stalin è abbattuta. All’alba del giorno dopo sarà distrutta completamente. Geroe affida a Nagy la guida del governo, ma nello stesso tempo richiede l’intervento dell’Armata Rossa. Poche ore dopo i carri armati russi entrano a Budapest, la polizia segreta comincia a sparare sulla folla. Budapest sale sulle barricate, inizia la caccia ai traditori al soldo di Mosca (sgherri che guadagnano 10.000 fiorini al mese, quanda la paga di un operaio o di un impiegato non supera i 600 fiorini). Il 25 Geroe si dimette da segretario del partito, è sostituito da Kadar. Lo stesso giorno il Colonnello Pal Maleter s’unisce agli insorti, lo seguono vasti settori dell’esercito ungherese, la rivolta s’estende ormai a tutta la nazione. Il 29 ottobre, i russi abbandonano Budapest, la rivoluzione ha vinto.
L’Ungheroa è libera, sbocciano ovunque le bandiere, i tricolori fioriscono ovunque, sui camion che carichi di gioia percorrono la città, sui balconi delle case, doce si sogna un futuro mai apparso così roseo.
Si scoprono i cimiteri clandestini della polizia segreta, vengono alla luce le prigioni sotterranee complete di camere di tortura, la giustizia degli insorti è implacabile, gli aguzzini comunisti sono linciati ed impiccati ai pali della luce.
Mani pietose depongono, intanto, sulle tombe dei patrioti, sepolti nei luoghi dove sono caduti, croci, fiori e lumini. Budapest, illuminata dalle fioche luci delle candele, piange i suoi morti.
A capo del governo insurrezionale è posto Imre Nagy. La scelta, a prima vista un pò strana, si spiega facilmente. I patrioti d’Ungheria avevano designato come Primo ministro Dudas, uno dei leaders della rivolta. Lo stesso prescelto aveva fatto notare che i russi mai avrebbero trattato con chi li stava espellendo dall’Ungheria, era dinque preferibile che fosse un comunista a trattare con i comunisti.
Nagy fa sue le richieste degli insorti: elezioni, neutralità e denunzia del patto di Varsavia, i russi si dicono disposti a trattare. I carri armati sovietici, intanto, stanno bloccando le frontiere magiare, l’inconsapevole Ungheria è stretta in una morsa d’acciaio.
La repressione
I russi hanno solo finto di voler trattare, durante i colloqui, i soldati sovietici arrestano Pal Maleter. La situazione precipita, Kadar chiede l’intervento dell’Armata Rossa, Nagy, ala radio, comunica alla nazione quanto sta avvenendo: “contro ogni impegno d’onore e di diritto, i russi hanno iniziato la marcia su Budapest, mentre ancora si svolgevano le trattative hanno arrestato i parlamentari magiari”.
All’alba del 4 novembre 25.000 carri armati e 75.000 uomini si preparavano ad attaccare Budapest, annunziata dai colpi di cannone, sparati in aria a scopo intimidatorio, e dal sinistro rumore dei cingoli l’immensa colata d’acciaio alle 6.20 aveva occupato le zone nevralgiche della città.
Budapest per circa tre ore divenne un deserto. Gli oppressori restarono serrati nei arri armati, spiati dai cittadini chiusi nelle loro case. I tricolore continuavano a sventolare sulle case, vi sarebbero rimasti per tutta la durata dell’insurrezione.
Una raffica di mitra rompe improvvisamente il silenzio, i boati dei cannoni sovietici la zittiscono immediatamente, ma è già troppo tardi, una pioggia di fuoco si abbatte s’abbatte sule truppe dell’invasore, inizia la drammatica poesia dei mitra contro i carri armati.
Alle 16.00 la radio, conquistata dai comunisti, trasmette un drammatico ultimatum: se i patrioti non s’arrendono Budapest sarà distrutta dall’iviazione sovietica. Alle 20 la stessa radio annunzia la fine delle ostilità. Una vile bugia, i patrioti ungheresi continuavano la lotta, che non aveva conosciuto un solo attimo di tregua.
La notte Budapest era illuminata dai roghi dei carri armati, ma le case erano distrutte dai loro proiettili. Per quattro giorni continuò la folle resistenza della città, anche senza munizioni la Budapest non s’arrendeva, ma oramai allo stremo i patrioti erano catturati ed uccisi, questi ultimi erano più fortunati.
La fine
I politici del mondo occidentale, impegnati nella crisi di Suez, non mossero un dito per rispondere all’appello che Nagy aveva loro rivolto, quando l’Armata Rossa aveva iniziato il suo attacco:”Amici questo è un SOS“.
Alludendo agli avvenimenti nel Medio Oriente, la trasmissione ungherese della libertà Rakoczy, in una delle sue ultime trasmissioni espresse la disperazione e la collera del popolo ungherese piantato in asso:
…in tali circostanze, noi ci appelliamo alla coscienza del mondo. La possibilità di perdere il canale di Suez non lascia indifferente la Francia e l’Inghilterra, giacchè esse hanno immediatamente avviato una “azione di polizia”…E’ dunque indifferente per il mondo che un piccolo paese…debba adesso perdere la propria libertà?…Sono dunque importanti solo gli interessi delle grandi potenze?…Perchè non vengono ascoltate le grida d’aiuto delle nostre donne e dei nostri bambini?…Sarà perchè non abbiamo nessun canale di Suez, in Ungheria!
Gli ungheresi abbandonavano, nel frattempo, la loro patria, più di 200.000 furono i profughi che varcarono i confini della sfortunata nazione, l’Italia e la Spagna furono le terre che più si prodigarono per soccorerli.
Quelli che non riuscirono, o non vollero fuggire, furono processati, torturati e giustiziati, senza pietà.
Il 17 giugno 1957, dopo una serie di vili doppi giochi, Maleter e Nagy furono, in segreto, fuciliati dai sovietici. Budapest la città ferita, ma non uccisa, stava, ormai, tornando lentamente alla normalità.
L’alba della libertà si sarebbe levata sulla città del Danubio trent’anni dopo.
Di Nirta Alessandro, che sentitamente ringrazio.
Sorgete, Magiari, la patria vi chiama! / Affrontate quest’ora, qualunque cosa vi porti! / Vogliamo essere uomini liberi o schiavi? / Scegliete quel che il vostro spirito anela! (Sandor Petofi, Inno nazionale)