Banana republic

Sono venuto a sapere, da un funzionario della prefettura di Milano, che una folla di extra comunitari in fila per l’acquisto della cittadinanza italiana ha desistito dopo la lettura del seguente articolo apparso oggi su “Il foglio” di Giuliano Ferrara:

Bye bye Max
L’America è sorpresa dalla politica estera dell’Italia e non vuole più inganni. Soprattutto sull’Iran
Roma. “Il caso in Italia è il primo al mondo in cui un funzionario del governo sta per essere condannato essenzialmente per aver cooperato con gli Stati Uniti per violare le leggi del suo stesso governo”. Il caso di cui si parla è quello noto di Niccolò Pollari, capo del Sismi, e la frase è di Ian Fisher ed Elisabetta Povoledo che, sul New York Times, hanno ricostruito – con accenti di incredulità – l’eccezione italiana nel panorama europeo di un caso di “rendition” che ha finito per tagliare la testa ai servizi segreti. Quando è scoppiato lo “scandalo” delle prigioni segrete della Cia (di cui tutti i governi erano a conoscenza) si sono aperte inchieste in ogni paese coinvolto e, nonostante le grida d’allarme sull’ingerenza americana, si sono chiuse senza troppi spasmi. In Italia no. E anzi questo dossier contribuisce a disseminare sospetti nelle relazioni tra gli Stati Uniti e il governo di Romano Prodi. Insieme con quella tattica dei fastidi che porta l’Italia ad astenersi sul voto del seggio latinoamericano al Consiglio di sicurezza dell’Onu, nonostante tutta l’Europa (nonché Washington) si sia opposta alla candidatura del Venezuela di Hugo Chávez. Insieme con la richiesta agli Stati Uniti – rifiutata – dell’estradizione del soldato che ha sparato a Nicola Calipari. Insieme con l’incontro sciagurato di Prodi con il presidente iraniano negazionista, Mahmoud Ahmadinejad, che ha compromesso la posizione italiana sul tavolo del nucleare di Teheran. Insieme con l’asse creato ad hoc con Varsavia e Mosca per salvare il regime bielorusso di Aleksander Lukashenka dalle sanzioni dell’Europa. Insieme con l’indulto a Silvia Baraldini – condannata in America, nel 1983, a 43 anni per associazione sovversiva, estradata in Italia nel 1999 e ora libera – accolto con gelo da Washington. Il dipartimento di stato americano sapeva che con il nuovo esecutivo ci sarebbero stati assestamenti in perfetta linea con la tradizione italiana. Ma fonti ufficiali americane dicono al Foglio che ci sono state alcune sorprese negli ultimi mesi. Sul voto per il Consiglio di sicurezza dell’Onu la posizione dell’Italia non era quella che poi si è rivelata, o almeno così era stato detto agli Stati Uniti, i quali si sono sentiti ingannati.

Fini: la legge c’è, basta rispettarla.

Con una lettera aperta al Corriere della Sera di oggi, l’Onorevole Gianfranco Fini, prendendo il toro per le corna, affronta il problema del velo delle donne musulmane, l’integrazione in Occidente dei musulmani e la libertà di culto degli individui. Oltre a condividere in toto quanto da lui scritto, mi preme sottolineare il coraggio e la statura dell’uomo e del politico Fini nell’addentrarsi di prima persona e con tale chiarezza nel campo minato del dibattito e confronto Occidente Islam.

D’altronde, come la sua lettera dimostra, la questione è di una semplicità sbalorditiva. Non c’è bisogno di inventarsi l’acqua calda, la legge c’è ed è chiara, bisogna solo rispettarla. Fine della dicussione. Chi non accetta le nostre leggi, non condivide i nostri ideali, i nostri usi, i nostri costumi è invitato a girare a largo, non gli devono essere rilasciati permessi di residenza e tantomeno di cittadinanza.

Io sono dell’idea che bisogna mettere gli extra comunitari davanti ad un bivio, bisogna metterli nelle condizioni di dover operare una scelta chiara ed inequivocabile: accettare o no il nostro modo di vivere. Per questo sono fautore di corsi di istruzione agli extra comunitari che fanno richiesta di residenza e di cittadinanza. Corsi che prevedono l’insegnamento delle nostre leggi, della nostra storia, dei nostri usi, costumi e del nostro senso civico. Solo chi accetta di frequentare questi corsi e li supera con profitto possono avere il diritto di fare richiesta di residenza o di cittadinanza. Non bisogna transigere su questo.

Esattamente come ha scritto l’Onorevole Fini, il ventunesimo secolo sarà come noi lo sapremo modellare. Io aggiungo, l’Islam si espanderà e diventerà minaccioso nella misura in cui noi cederemo loro terreno, nella misura in cui noi ci caleremo le brache davanti alle loro crescenti richieste di adattarci noi a loro in casa nostra. Chi non comprende questo o pecca d’ingenuità o è palesemente uno sprovveduto.

 

Budapest: 1956-2006, tutto come prima.

Sono giunti 56 fra capi di stato e ministri di vari paesi a rendere omaggio all’Ungheria per i tristi, ma eroici fatti del 1956. Ma a pochi passi dalle cerimonie ufficiali il clima è stato da guerriglia urbana. Il destino, o la stupidità di chi non ha tratto insegnamenti dalla storia, ha voluto che gli ungheresi arrivassero a questo importante appuntamento arrabbiati e delusi, ma determinati a non continuare a farsi prendere per i fondelli dall’attuale governo e in modo particolare dal Primo Ministro Guyrcsany.

Il 16 settembre scorso è aparso su internet un file audio in cui il fresco rielletto Primo Ministro, in una riunione di partito a porte chiuse tenutosi mesi prima, con linguaggio colorito dichiara che il (suo) governo non ha fatto nulla per “questo paese del cazzo” e di aver vinto nuovamente le elezioni per avere mentito alla gente sulla reale situazione economica del paese. Il giorno seguente la gente è scesa in piazza a decine di migliaia chiedendo a gran voce le dimissioni di Gyurcsany. Alcuni rappresentanti dei manifestanti si erano presentati alla tv di stato con un comunicato da rivolgere al paese. A seguito del rifiuto di permettere la lettura del comunicato e dell’intervento deciso delle forze di polizia, i manifestanti si lasciarono andare a scene di vandalismo devastando alcuni uffici della stazione radio. Le manifestazioni sono proseguite senza sosta fino ad oggi, interrotte soltanto in occasione delle amministrative, che determinarono una sconfitta su tutti i fronti della coalizione guidata dal Primo Ministro. Nonostante abbia perso la fiducia della gente il Primo Ministro ha più volte dichiarato di non avere nessuna intenzione di rassegnare le dimissioni sostenendo di essere l’unico in grado di guidare il paese nel risanamento dei conti pubblici (sto parlando di Gyurcsany, non di Prodi).

Tracciare un parallelo tra igli avvenimenti del 1956 e i fatti di questi giorni può sembrare irriverente, ma è utile, nel notare similirudini nei comportamenti dei leaders di allora e dell’attuale Primo Ministro. I combattenti per la libertà di cinquant’anni fa vennero liquidati come canaglie dallallora Primo Ministro Geroe, Gyurcsany riferendosi ai manifestanti che gremivano le piazza da una settimana, dichiarò “il popolo sono io e non i manifestanti”. Se si considera che i manifestanti sono in piazza dal 17 settembre senza che il Primo Ministro se ne sia curato minimamente non è facile notare che, come allora, nessuno è disposto ad ascoltare la gente. Esattamente questo comportamento in questa situazione stride con il discorso pronunciato oggi da Gyurcsany in Parlamento davanti ai capi di stato stranieri in cui ha chiosato che i fatti del 1956 hanno coinvolto milioni di ungheresi e che chi governo deve avere la capacità non solo di ascoltarli ma anche di capirli. Belle parole, ma egli non ascolta e non capisce manifestanti in piazza da più di un mese che chiedono le sue dimissioni. 

Può sembrare strano che simili fatti possono accadere in un paese membro della Comunità Europea da maggio del 2004. Ma si deve tener presente che con la caduta della cortina di ferro in paesi come l’Ungheria non è coincisa immediatamente l’arrivo della democrazia, piùttosto è accaduto che i leaders illiberali di allora si sono semplicemente mimetizzati, riciclati e continuano a dettare legge in maniera più o meno democratica. L’economia di questi paesi è in mano dei dirigenti, dignitari di partito di una volta che da direttori di aziende statali si sono trovati proprietari di aziende il giorno dopo della caduta del muro di Berlino.

Alla luce di quanto appena esposto non è difficile comprendere come possa accadere che semplici famiglie accorse a Budapest da tutta l’Ungheria per manifestare pacificamente contro il Primo Ministro il giorno del cinquantesimo anniversario di una rivolta ben più importante e imponente, la reazione di chi comanda è esattamente la stessa. Un uso premeditato, violento e sproporzionato della forza. Al popolo è stato negato e di poter celebrare in pace gli avvenimenti del 1956 e di poter manifestare liberamente il proprio dissenso per la disonestà politica attuale. Come cinquant’anni fa oggi la polizia ha caricato selvaggiamente pacifici manifestanti utilizzando da subito lacrimogeni, manganelli, idranti e addirittura proiettili di gomma. Che tristezza.

 

Omaggio al popolo ungherese.

Lunedì 23 ottobre ricorre il cinquantesimo anniversario della rivolta di Budapest, la battaglia per la libertà in Ungheria, repressa nel sangue dal comunismo. Mentre il resto del mondo pensava ad altro, in Ungheria venivano uccise decine di migliaia di inermi persone che lottavano per la libertà. Donne, bambini e anziani trucidati senza pietà. Questo post è in onore del valoroso popolo ungherese, che solo, abbandonato da tutti, lottò a mani nude contro il comunismo sovietico. Dobbiamo tenere vivo il ricordo di coloro che hanno mostrato al mondo intero la natura vile del comunismo.

Sfortunatamente non tutti hanno voluto capire, preferendo la menzogna alla verità, preferendo la repressione sovietica al grido di libertà del popolo ungherese. Così, mentre in Unheria si moriva e si faceva appello alla comunità internazionale, campioni di menzogne, corruttori della società, fanatici criminali ideologici di casa nostra hanno commentato così:

Palmiro Togliatti disse: “È mia opinione che una protesta contro l’Unione Sovietica avrebbe dovuto farsi se essa non fosse intervenuta, nel nome della solidarietà che deve unire nella difesa della cività tutti i popoli”. A Pietro Ingrao, che era andato a trovarlo subito dopo l’invasione per confidargli il suo turbamento, riferendogli di non avere dormito la notte, risponderà: “Io invece ho bevuto un bicchiere di vino in più”.

Giorgio Napolitano attuale Presidente della Repubblica italiano, (nel 1956 responsabile della commissione meridionale del Comitato Centrale del PCI) condannò come controrivoluzionari gli insorti ungheresi, su L’Unità si arrivò persino a definire gli operai insorti “teppisti” e “spregevoli provocatori” giustificando l’intervento delle truppe sovietiche sostenendo invece che si trattasse di un elemento di “stabilizzazione internazionale” e di un “contributo alla pace nel mondo”. A 50 anni di distanza da quei fatti Napolitano, nella sua autobiografia politica Dal PCI al socialismo europeo, parla del suo “grave tormento autocritico” riguardo a quella posizione, nata dalla concezione del ruolo del Partito comunista come “inseparabile dalle sorti del campo socialista guidato dall’URSS”, contrapposto al fronte “imperialista”.

Luigi Longo sostenne la tesi della rivolta fascista: “L’esercito sovietico è intervenuto in Ungheria allo scopo di ristabilire l’ordine turbato dal movimento rivoluzionario che aveva lo scopo di distruggere e annullare le conquiste dei lavoratori…”.

Che ottusità, che cecità, che falsità, che ipocrisia. Ma andiamo a vedere cosa è successo veramente. 

Non parliamo della Rivoluzione ungherese. Parliamo dell’agonia ungherese. Poichè da quando a Budapest il regime comunista aprì il fuoco sulla folla inerme e tramutò il suo dissidio con il popolo ungherese da lotta politica, che non poteva vincere, in rivolta armata che, con l’aiuto dei sovietici, non poteva perdere, la distruzione della resistenza ungherese fu inevitabile. Sembrò che il mondo sentisse che non c’era altra possibilità di scelta - all’infuori della guerra atomica - che attendere osservando, nell’orrore e nello sdegno, il brutale, metodico sterminio di quell’infelice popolo da parte di una forza strapotente e di un vile tradimento.

E’ senz’altro comprensibile che noi, negli Stati Uniti, ci sentissimo arrossire per la nostra incapacità di far qualcosa in questo incubo. Non dovremmo comunue dimenticare, con tutta la nostra sofferenza e il nostro dolore, che dobbiamo al popolo ungherese più che pietà. Gli dibbiamo anche onore e gloria. Poichè la loro stessa sconfitta è stata un trionfo. Quegli studenti, quegli operai, qelle donne e quei bambini combattenti hanno fatto di più per sbarrare il domani al comunismo di quel che abbiano fatto prima di loro le armate o i diplomatici. Hanno dato di più e hanno fatto di più. Perchè quel che hanno fatto è stato di rilevare la brutale ipocrisia del comunismo perchè la vedesse tutta l’Asia, tutta l’Africa, tutto il mondo. Finchè in questi paesi vivranno uomini che ricordino il massacro dell’Ungheria, la Russia sovietica non potrà mai più fingersi davanti al mondo come benefattrice dell’umanità. I morti ungheresi le hanno strappato la maschera. Nelle loro tombe ne stringono ancora in mano i brandelli. ( Archibald MacLeish - LIFE - 1956)      

Questa è una storia d’eroismo e di viltà, di sacrifici e soprusi, d’integrità e tradimenti. Questa è la storia della Rivolta di Budapest. Le eroiche gesta non dovrebbero mai cadere nell’oblio. Quando il ricordarle, però, suscita vergogna in chi poteva soccorrere i prodi e non lo ha fatto, e, soprattutto, quando il rammentare reca fastidio ai potenti si preferisce passarle sotto silenzio.

La guerra

Sul finire degli anni trenta l’Ungheria è una repubblica aristocratica, che non vede di buon occhio i regimi di massa impostisi in Germania e Russia. La vicinanza, le pressioni esercitate dal governo di Berlino e, soprattutto, la necessità di recuperare quelle terre sottrattele dall’infame trattato del Trianon, spingono la nazione magiara nell’orbita tedesca.

L’atteggiamento del popolo ungherese nei confronti dell’alleato può essere riassunto in una frase del conte Teleki, capo del governo ungherese nel 1941, “se la Germania perde perdiamo, se vince siamo perduti”. Il gentiluomo non poteva, certo, immaginare in quale inferno la sconfitta avrebbe trascinato la sua patria. Egli non vide la fine della guerra, tradito dal conte Csaki, capo del personale diplomatico, che consentì alle truppe naziste di attraversare l’Ungheria per invadere la Jugoslavia, al cui sovrano Teleki aveva garantito che una simile eventualità non si sarebbe mai verificata, si tolse la vita pur di non venir meno alla parola data.

L’Ungheria proseguì la guerra a fianco dell’alleato tedesco. L’esercito e il popolo ungherese, guidati dal partito delle croci frecciate s’arresero, dopo una ferrea resistenza, solo il 4 aprile 1945, quando tutta la nazione era nelle mani delle forze d’occupazione.

Il dopoguerra

L’Ungheria non rientrava, originariamente, nei piani di Stalin, per questo le truppe russe la trattarono, da principio, come una preda di guerra smantellando e requisendo tutto ciò che potevano per spedirlo in URSS.

Sotto la guida dell’Ammiraglio Horthy si era intanto costituito un governo provvisorio nel quale poco era lo spazio lasciato ai comunisti, questa carenza era, però compensata dal totale controllo esercitato dai compagni dello straniero sulle forze armate.

Le elezioni del 4 novembre 1945, un tonfo per i comunisti, che ottennero, nonostante la minacciosa presenza dell’Armata Rossa soltanto il 17% dei voti, furono un trionfo per il partito dei piccoli proprietari, che raggiunse il 57% dei suffragi.

Gli stalinisti, per i quali le elezioni non hanno mai avuto molto valore, scatenarono una violenta campagna, fatta di minacce, calunnie, torture e arresti immotivati, contro il partito uscito vincitore dalla consultazione elettorale, il leader dei piccoli proprietari, Ferenc Nagy, fu costretto all’esilio, il suo successore, Kovacs, venne semplicemento arrestato dall’Armata Rossa. Sulla poltrona di capo del governo s’installò il comunista Rajk.

Le successive elezioni, tenutesi il 31 agosto 1947, confermarono la forza d’animo e il saldo desiderio di libertà del valoroso popolo ungherese. La coalizione anticomunista ottenne il 45% dei voti, che sommato all’incredibile 8% del partito nazionalista dava ai movimenti della libertà la maggioranza assoluta. I comunisti, che avevano ottenuto il 22% dei consensi, sfogarono, col sostegno dell’Armata Rossa, la loro frustrazione sull’inerme popolo magiaro, si moltiplicarono i soprusi, le calunnie, gli arresti immotivati e gli esili.

Nelle elezioni del 15 maggio del 1949 i lacchè della Russia riuscirono finalmente a spuntarla. L’Ungheria s’avviava a diventare uno di quei complessi di miseria, sporcizia, paura e soprusi, passati alla storia col nome di democrazie popolari.

Lo stalinismo

Allarmato dal voltafaccia di Tito, Stalin era deciso ad impedire che altri leaders dell’Europa Orientale seguissero l’esempio del compagno jugoslavo. Cominnciarono così tutta una serie di processi, avvelenamenti e arresti, aventi lo scopo di mettere a capo delle nazioni satelliti uomini la cui obbedienza a Mosca fosse assoluta e cieca.

A farne le spese furono comunisti di provata fede, il polacco Gomulka venne incarcerato, giustiziati furono invece il bulgaro Kostov ed il rumeno Patrascanu. Le paure del capo dell’URSS non risparmiarono l’Ungheria, Rajk pagò con la vita i servigi resi a Mosca. Il successore di Rajk, Rakosi, martirizzò per quasi quattro anni il popolo ungherese. Le sofferenze dei magiari s’alleviarono, non di molto, solo dopo la morte di Stalin, quando in omaggio alle direttive di Mosca, Rakosi, che conservò la ben più importante carica di segretario del partito, affidò la guida del governo ad Imre Nagy. Rakosi ostacolò costantemente l’opera di Nagy e nel 1955 riuscì a farlo espellere dal partito.

La destalinizzazione 

In Russia, intanto, qualcosa stava cambiando. Dopo tre anni di intrighi, complotti e macchinazioni a Stalin era successo Nikita Kruscev. Proprio il neo presidente dell’URSS presentò, durante i lavori del XX° congresso del Pcus, svoltosi a Mosca dal 14 al 25 febbraio del 1956, il famoso rapporto segreto su Stalin, che portò ad una condanna dello stalinismo. Le nazioni sottoposte ai sovietici vi videro la possibilità d’alleggerire il giogo cui erano costrette.

Le nontizie provenienti dalla Polonia, scarcerazioni di migliaia di prigionieri e Gomulka segretario generale del partito, esaltarono il popolo d’Ungheria che non esitò a scendere in piazza.

Gli ungheresi, guidati da studenti ed intellettuali, particolarmente attivi quelli dei circoli Petofi, chiedevano la riabilitazione di Rajk ed il ritorno di Nagy al governo. Rakosi rispose con l’unico linguaggio che conosceva, quello della violenza, gli stessi russi, il che è tutto dire, furono costernati dalla brutalità del boia rosso, e lo sostituirono con Geroe.

La decisione non poteva accontentare gli insorti, Geroe era un fedelissimo di Rakosi, che continuarono ad avanzare le loro richieste, Geroe dovette cedere e riabilitare Rajk.

300.000 persone parteciparono ai funerali di stato in onore del defunto leader, li guidava Imre Nagy.

La rivolta

Il 23 ottobre, un’immensa folla scende nelle strade di Budapest. E’ la sete di libertà a guidarla. Gli insorti iniziarono a distruggere gli invisi simboli della dittatura, le aborrite stelle rosse sono staccate dai muri o distrutte a colpi di pietra, le biblioteche del partito sono assalite e distrutte, i loro libri carichi d’odio e bugie inceneriti, studenti, operai e braccianti bruciano le bandiere rosse simbolo dell’oppressione.

In serata Geroe definirà i patrioti di Budapest delle canaglie, è la goccia che fa traboccare il vaso, vengono esplosi i primi colpi d’arma da fuoco, l’attacco contro il regime inizia davvero.

Quella stessa notte la statua di Stalin è abbattuta. All’alba del giorno dopo sarà distrutta completamente. Geroe affida a Nagy la guida del governo, ma nello stesso tempo richiede l’intervento dell’Armata Rossa. Poche ore dopo i carri armati russi entrano a Budapest, la polizia segreta comincia a sparare sulla folla. Budapest sale sulle barricate, inizia la caccia ai traditori al soldo di Mosca (sgherri che guadagnano 10.000 fiorini al mese, quanda la paga di un operaio o di un impiegato non supera i 600 fiorini). Il 25 Geroe si dimette da segretario del partito, è sostituito da Kadar. Lo stesso giorno il Colonnello Pal Maleter s’unisce agli insorti, lo seguono vasti settori dell’esercito ungherese, la rivolta s’estende ormai a tutta la nazione. Il 29 ottobre, i russi abbandonano Budapest, la rivoluzione ha vinto.

L’Ungheroa è libera, sbocciano ovunque le bandiere, i tricolori fioriscono ovunque, sui camion che carichi di gioia percorrono la città, sui balconi delle case, doce si sogna un futuro mai apparso così roseo.

Si scoprono i cimiteri clandestini della polizia segreta, vengono alla luce le prigioni sotterranee complete di camere di tortura, la giustizia degli insorti è implacabile, gli aguzzini comunisti sono linciati ed impiccati ai pali della luce.

Mani pietose depongono, intanto, sulle tombe dei patrioti, sepolti nei luoghi dove sono caduti, croci, fiori e lumini. Budapest, illuminata dalle fioche luci delle candele, piange i suoi morti.

A capo del governo insurrezionale è posto Imre Nagy. La scelta, a prima vista un pò strana, si spiega facilmente. I patrioti d’Ungheria avevano designato come Primo ministro Dudas, uno dei leaders della rivolta. Lo stesso prescelto aveva fatto notare che i russi mai avrebbero trattato con chi li stava espellendo dall’Ungheria, era dinque preferibile che fosse un comunista a trattare con i comunisti.

Nagy fa sue le richieste degli insorti: elezioni, neutralità e denunzia del patto di Varsavia, i russi si dicono disposti a trattare. I carri armati sovietici, intanto, stanno bloccando le frontiere magiare, l’inconsapevole Ungheria è stretta in una morsa d’acciaio.  

La repressione

I russi hanno solo finto di voler trattare, durante i colloqui, i soldati sovietici arrestano Pal Maleter. La situazione precipita, Kadar chiede l’intervento dell’Armata Rossa, Nagy, ala radio, comunica alla nazione quanto sta avvenendo: “contro ogni impegno d’onore e di diritto, i russi hanno iniziato la marcia su Budapest, mentre ancora si svolgevano le trattative hanno arrestato i parlamentari magiari”.

All’alba del 4 novembre 25.000 carri armati e 75.000 uomini si preparavano ad attaccare Budapest, annunziata dai colpi di cannone, sparati in aria a scopo intimidatorio, e dal sinistro rumore dei cingoli l’immensa colata d’acciaio alle 6.20 aveva occupato le zone nevralgiche della città.

Budapest per circa tre ore divenne un deserto. Gli oppressori restarono serrati nei arri armati, spiati dai cittadini chiusi nelle loro case. I tricolore continuavano a sventolare sulle case, vi sarebbero rimasti per tutta la durata dell’insurrezione.

Una raffica di mitra rompe improvvisamente il silenzio, i boati dei cannoni sovietici la zittiscono immediatamente, ma è già troppo tardi, una pioggia di fuoco si abbatte s’abbatte sule truppe dell’invasore, inizia la drammatica poesia dei mitra contro i carri armati.

Alle 16.00 la radio, conquistata dai comunisti, trasmette un drammatico ultimatum: se i patrioti non s’arrendono Budapest sarà distrutta dall’iviazione sovietica. Alle 20 la stessa radio annunzia la fine delle ostilità. Una vile bugia, i patrioti ungheresi continuavano la lotta, che non aveva conosciuto un solo attimo di tregua.

La notte Budapest era illuminata dai roghi dei carri armati, ma le case erano distrutte dai loro proiettili. Per quattro giorni continuò la folle resistenza della città, anche senza munizioni la Budapest non s’arrendeva, ma oramai allo stremo i patrioti erano catturati ed uccisi, questi ultimi erano più fortunati.

La fine

I politici del mondo occidentale, impegnati nella crisi di Suez, non mossero un dito per rispondere all’appello che Nagy aveva loro rivolto, quando l’Armata Rossa aveva iniziato il suo attacco:”Amici questo è un SOS“.

Alludendo agli avvenimenti nel Medio Oriente, la trasmissione ungherese della libertà Rakoczy, in una delle sue ultime trasmissioni espresse la disperazione e la collera del popolo ungherese piantato in asso:

…in tali circostanze, noi ci appelliamo alla coscienza del mondo. La possibilità di perdere il canale di Suez non lascia indifferente la Francia e l’Inghilterra, giacchè esse hanno immediatamente avviato una “azione di polizia”…E’ dunque indifferente per il mondo che un piccolo paese…debba adesso perdere la propria libertà?…Sono dunque importanti solo gli interessi delle grandi potenze?…Perchè non vengono ascoltate le grida d’aiuto delle nostre donne e dei nostri bambini?…Sarà perchè non abbiamo nessun canale di Suez, in Ungheria!

Gli ungheresi abbandonavano, nel frattempo, la loro patria, più di 200.000 furono i profughi che varcarono i confini della sfortunata nazione, l’Italia e la Spagna furono le terre che più si prodigarono per soccorerli.

Quelli che non riuscirono, o non vollero fuggire, furono processati, torturati e giustiziati, senza pietà.

Il 17 giugno 1957, dopo una serie di vili doppi giochi, Maleter e Nagy furono, in segreto, fuciliati dai sovietici. Budapest la città ferita, ma non uccisa, stava, ormai, tornando lentamente alla normalità.

L’alba della libertà si sarebbe levata sulla città del Danubio trent’anni dopo. 

Di Nirta Alessandro, che sentitamente ringrazio.   

Sorgete, Magiari, la patria vi chiama! / Affrontate quest’ora, qualunque cosa vi porti! / Vogliamo essere uomini liberi o schiavi? / Scegliete quel che il vostro spirito anela! (Sandor Petofi, Inno nazionale)

Mortadella go home.

Prodi riesce a superarsi ogni giorno, battendo quotidianamente il saldo negativo della sua politica del giorno precedente. Non c’è giorno che passa senza che prenda sonori ceffoni da destra, da manca, da sopra, da sotto, fuori casa e, sempre più spesso, in casa. Come un pugile sul punto di finire con un gran tonfo sul tappeto barcolla da una figura da pirla all’altra. Il dissenso nei suoi confronti sta raggiungendo picchi altissimi, al punto che ieri è stato fischiato apertamente e sonoramente da chierichetti, pretii, donne e bambini al suo arrivo allo stadio di Verona.

Si sente accerchiato e accusa apertamente la stampa di remargli contro. Visto che l’ottanata per cento della stampa è sinistroide è tutto dire. Del resto come si fa a continuare a sostenerlo dopo che due agenzie di rating declassano l’Italia perchè bocciano una finanziaria da lui fortemente voluta in questa maniera. In precedenza gli lo avevano già detto a chiare lettere senza possibiltà di incomprensioni economisti, sindacalisti, amministratori locali, Confindustri, Confcommercio, Banca d’Italia, partiti d’opposizione e partiti di coalizione.

In poco tempo è riuscito ad inimicarsi tutte le categorie di lavoratori spingendoli a scendere in piazza a più riprese. Come previsto non è riuscito ad evitare di fare la figura del ritardato intromettendosi nel dibattito, per lui troppo complesso, del velo sostenendo che molte donne lo portano anche come accessorio perchè imbellisce. All’estero l’Italia è diventata un punto di riferimento di Hezbollah e del Venezuela di Hugo Chavez. Per gli Stati Uniti, come nella migliore tradizione, siamo tornati ad essere, dopo il breve intermezzo del governo precedente, l’alleato poco affidabile. Prodi ci ha tenuto a mandare agli americani un segnale inequivocabile criminalizzando dozzine di agenti della CIA. Allo stesso tempo ha sputtanato a livello planetario i servizi di casa nostra, dando il ben servito a dignitosi servitori dello stato come non si dà neanche alla governante di casa.    

Nella sua coalizione serpeggia il malcontento, ma lui, con lo stile che lo contraddistingue, ha minacciato che se cade lui lo seguiranno tutti. E questo non può che farmi piacere. Se dovessimo rifare la conta oggi i coglioni si conterebbero sulle dite di una mano. Errare è umano, perseverare è da coglioni. Dopo questi mesi di virus pestilenziali che il governo Prodi ci ha somministrato ne usciamo con gli anticorpi sviluppati e con il fisico e la mente rafforzati, rinvigoriti.

Per certi versi, quindi, è stato di qualche utilità. Oramai, però, quando ci farà il piacere di andersene a quel paese sarà sempre troppo tardi. 

Follini ha rotto

Marco Follini ha rotto gli indugi e si è chiamato fuori dall’Udc per fondare il partito “L’Italia di mezzo”. Viste le sue dichiarazioni nelle ultime settimane il gesto non è un fulmine a ciel sereno. Sgradito ma prevedibile, dunque. E’ giunto nel classico momento sbagliato, quando il nemico comincia a dare segni di nervosismo e di cedimento ecco che dalle nostre fila esce uno e getta la spugna. E, non lo dice, ma sembra che andrebbe addirittura dall’altra parte delle barricate. Ma questo sarebbe troppo. Per cui si limita a dichiarare

troppo spesso, scegliere tra due poli significa non avere scelta.

Diciamo che uno che non riesce a capire qual’è il suo posto si siede al centro e guarda un pò quà e un pò la, ogni tanto alza il dito per vedere da dove tira il vento e al momento opportuno (sempre questione di opportunismo) cade la scelta.

Resistenza: resistere alla verità.

Dire la verità in Italia non è conveniente e può fare male. Questo Pansa lo sa bene. Uomo di sinistra (io non sono di sinistra) che ammiro enormemente. Non perchè dice cose che mi tornano utile, ma perchè dice la verità anche se non corrisponde al pensiero dominante e non la stravolge per adattarla ad uso e consumo degli altri.

Per questo, alla presentazione del suo ultimo libro a Reggio Emilia, è stato attaccato da skinhead di sinistra, che non sono disposti ad accettare la verità sulla resistenza, ma resisterle ostinatamente, ottusamente, violentemente.

Consiglio, di cuore, di andarsi a leggere quanto ha scritto con maestria Paolo Bonari su Libmagazine.

A proposito di Prodi da Zapatero.

Oggi Prodi è in Spagna da Zapatero e istintivamente mi viene in mente questa notizia di qualche settimana fa:

Due avieri pronunciano il si’ in uniforme a Siviglia

(ANSA) - MADRID, 15 SET - Sono 2 avieri la prima coppia gay delle forze armate spagnole convolata a nozze, dopo la legalizzazione del matrimonio omosessuale nel Paese. I due militari, Alberto Linero Marchena e Alberto Sanchez Fernandez, della base aerea di Moron de la Frontera (sud), hanno pronunciato il fatidico si’ in uniforme nel municipio di Siviglia. Dall’entrata in vigore della legge che legalizza il matrimonio gay, il 4 luglio 2005, in Spagna piu’ di 4.500 coppie omosessuali si sono sposate.

Questo no. Perdonatemi, sono per tutte le libertà di questo mondo, ma non questa. Ai Pacs dico no. Ho un limite e non transigo. Tacciatemi di conservatorismo, illiberalità o quello che vi pare, ma i Pacs mai.

Di Torselli non mi frega niente, ma lasciamo stare il figlio.

Per me, come italiano, il freelance Torsello può anche rimanere a marcire in Afghanistan. Se ne occupi l’UCOI, l’Inghilterra, Gino Strada, Emergency o chi gli pare, ma che la stampa di casa nostra non stia a rompere i maroni bombardandoci dal mattino alla sera con la storia di questo rinnegato. Se è stato rapito.

Una cosa mi rode in particolare. La stampa di casa nostra che con fare truffaldino si spinge addirittura a scrivere che il figlio di quattro anni del freelance ha chiesto che i rapitori liberino suo padre. Ma vi pare che un bambino di quattro anni possa essere in grado di fare una dichiarazione del genere? Soprattutto questo bambino, che con molta probabilità non sa neanche di avere un padre, visto che questi fa il nomade per mezzo mondo pur di non stare a casa. Evidentemente gli puzza.  

Dacia Valente minacci gli islamici moderati.

Riprendo questo articolo per darne la massima diffusione, perchè si tratta di un fatto vergognosamente grave. 

Consulta islamica: minacce ai moderati di Giuseppe Catalano

http://www.ilvelino.it/articolo.php?Id=269502#269502

Roma, 13 ott (Velino) - Roma. “Pensaci bene, Ahmed, vuoi diventare anche tu un traditore della causa dell’islam? Vuoi far parte anche tu, come Souad Sbai, della squadra di camerieri di un nostro nemico dichiarato come Magdi Allam?”. Questo, grosso modo, l’esordio. E poi: “Te lo dico per il tuo bene, Ahmed, dovete smetterla di riunirvi di nascosto, di firmare lettere di critica e di protesta contro l’Uccoi, dovete mettervi bene in testa che non c’è un islam italiano, non esiste l’islam dei moderati, esiste un solo islam ed è l’Uccoi che lo rappresenta…”. Infine, la frase più inquietante di tutte: “Un consiglio da amica: state attenti, tutti sanno dove abiti e se continuate, tu e i tuoi amici, nelle offese all’islam, a qualcuno potrebbe anche saltare in mente di venire a cercarti…”. Queste le parole che si è sentito rivolgere, al telefono, Ahmed Jizad, scrittore, giornalista, presidente della Comunità degli immigrati pakistani, membro della Consulta islamica nonché autorevole rappresentante di quello che viene comunemente definito l’Islam dei moderati. A pronunciarle, all’altro capo del filo: Dacia Valent, eletta al Parlamento europeo nelle file di Rifondazione Comunista ed esponente a pieno titolo dell’Uccoi e delle istanze più oltranziste dell’Islam radicale. Non nuova, in verità, a performances di questo genere (proprio da Souad Sbai, Dacia Valent ha ricevuto due denunce per intimidazioni e minacce).

Ancora visibilmente turbato e provato (“non è di me che mi preoccupo ma della mia famiglia”) Ahmed Jizad non ha dubbi: “Il messaggio che ho ricevuto è un tentativo molto chiaro di rompere il fronte dei moderati della Consulta”. Non è un caso, aggiunge, che il tentativo si verifichi nel momento in cui questo fronte può apparire indebolito dall’accantonamento di quella Carta dei Valori su cui i moderati puntavano molto per cercare di isolare le posizioni dell’islam più radicale. A turbare e preoccupare, insieme a Ahmed Jizad, tutti gli esponenti moderati della Consulta è la parola “traditore” che appare nella telefonata di Dacia Valent. “Traditori dell’Islam” è l’insulto che il presidente dell’Uccoi, Nour Dachan, ha gridato più volte al loro indirizzo al termine dell’ultima riunione della Consulta, al ministero dell’Interno. A riprova, si sostiene, semmai ce ne fosse bisogno, che quella di Dacia Valent non è un’iniziativa personale ma un’intimidazione che matura all’interno dell’Uccoi stessa, nel quadro di una linea d’azione tipica dell’estremismo islamico. Tanto abile e accorto nelle sue dichiarazioni pubbliche, davanti a microfoni e telecamere, quanto pronto ad usare ben altri strumenti, a telecamere spente, quando si tratta di riaffermare la propria supremazia nei confronti delle spinte riformiste e democratiche dell’immigrazione mussulmana. Su tutta questa vicenda, i moderati della Consulta si apprestano ad inoltrare un esposto alla Procura della Repubblica di Roma.