Dopo una parentesi durata tre anni e comprendente cinque LP e una vagonata di 45 giri, gli Stones riescono finalmente a dare alla luce un 33 giri composto interamente da pezzi in proprio. Parto podalico, d’accordo, ma calcolato: Aftermath inaugura alla grande il ciclo “atipico” del gruppo che abbraccerà il biennio ’66 / ’67 per concludersi – bene o male – con il controverso Their Satanic Majesties Request di cui si dirà in seguito.
Aftermath è senza ombra di dubbio un lavoro di rilevante spessore: dal punto di vista squisitamente censorio si tratta di un lavoro di tutto riguardo, articolato com’è tra pezzi per lo più molto buoni, spesso ottimi ed in alcuni casi davvero eccellenti. Siamo ben distanti, però, da quel sound rock and roll sporco e cattivo che aveva fatto (e ancora di più farà in seguito) la fortuna del gruppo. Non solo distanti, anzi, ma addirittura in clamoroso allontanamento, e i due LP successivi confermeranno inequivocabilmente la tendenza.
Il pezzo più “cattivo” è senza dubbio il classico Paint It Black, che apre alla grande l’album: una cavalcata di tre minuti e cinquanta durante la quale l’ascoltatore viene travolto dalla voce selvaggia e disinibita di Jagger e dal galoppare della batteria di Charlie Watts. Il legante tra le due è costituito dalla chitarra di Richards unita alla memorabile trama di sitar concepita e intessuta da Brian Jones.
Per la cronaca, è proprio a partire da Aftermath che Jones metterà in risalto le sue qualità di polistrumentista autodidatta: se il suo corrispondente presso i Beatles, George Harrison, aveva dovuto prendere lezioni da Ravi Shankar per imparare a strimpellare il sitar, è stato invece sufficiente che il Nostro lo imbracciasse per un po’ per arrivare a suonarlo con disinvoltura, senza interventi dall’esterno. Bando alle divagazioni e lungi dalle polemiche, ma per farsi un’idea del repertorio mozzafiato di strumenti che Jones padroneggiava, è sufficiente dare una scorsa tra i crediti, in seconda di copertina, del triplo The Singles Collection – The London Years.
Nonostante un esordio così tranchant non c’è ombra di durezza, in Aftermath, solo tantissimo blues, e di buona qualità: le ottime Doncha Bother Me, Flight 505 e High And Dry sono gli esempi più evidenti, seppur con le dovute postille. Doncha Bother Me è un blues solido e sicuro basato essenzialmente su una grezza tela formata da una chitarra acustica, una elettrica suonata con lo slide e un pianoforte su cui l’ugola maleducata di Jagger e l’armonica di Jones stendono le efficaci pennellate finali. Peculiare è il trattamento del pianoforte, evocativo di quelle atmosfere tipiche delle barrelhouse della Louisiana e del Mississippi. Stesso dicasi per Flight 505, dove l’incipit di piano sembra quasi volere riportare l’ascoltatore ad uno dei classici blues da saloon à la Bessie Smith, pur assumendo in seguito un incedere meno ortodosso, decisamente distante da quei consolidati stilemi.
La stessa High And Dry si muove lungo le strade del blues tradizionale, probabilmente in misura maggiore di qualsiasi pezzo presente in Aftermath: come se non bastasse, per molti versi il pezzo sembra quasi solcato da venature country. It’s Not Easy, basato anch’esso su un tipico intro blues nello stile tipico del delta, mira invece a spiazzare l’ascoltatore con un decorso tutto proteso verso accordi di chitarra rock n’roll anni ’50, gli stessi che costituiranno l’ossatura di quasi tutti i lavori Stones più noti.
Sul versante dei classici, si è già detto di Paint It Black; in Aftermath ritroviamo altresì due pezzi da novanta come Lady Jane ed Under My Thumb: la prima è una delle classiche, dolcissime ballate in stile Stones di stampo analogo a quello di As Tears Go By, ed è basata unicamente su un’essenziale trama di basso, un delicato arpeggio di chitarra acustica e un intreccio di note suonate (dal solito Brian Jones) all’harpsichord, con i sussurri di Jagger a definirne morbidamente i contorni.
Under My Thumb ha invece un andamento più dinamico dal punto di vista strumentale e decisamente secco sotto l’aspetto lirico: come ha avuto modo di osservare Mick Jagger a riguardo delle accuse di misoginia mosse a suo tempo per il testo di Stupid Girl, «chi ritiene che abbia un testo misogino non ha capito nulla: quello è solo un divertissement. Sarebbe meglio guardare a Under My Thumb invece…».
Non siamo granché distanti dalla realtà, in effetti: Stupid Girl è uno scherzo vero e proprio, a partire dalla sua natura melodica incentrata su un organo tutto anni ’60 per terminare con un cantato che ammicca più a un ghigno da monellaccio stampato sulla faccia di Jagger che ad altro. L’LP è sigillato da Going Home, il pezzo in assoluto più lungo di tutta la discografia Stones: un episodio invero gradevole ed a tratti persino ben riuscito, ma assolutamente opinabile proprio per la sua durata di undici minuti che induce più a soporiferi abbandoni che ad altro.
Tracklist:
1. Paint It Black
2. Stupid Girl
3. Lady Jane
4. Under My Thumb
5. Doncha Bother Me
6. Think
7. Flight 505
8. High And Dry
9. It’s Not Easy
10. I Am Waiting
11. Going Home