Concluso il ciclo di tournées che li aveva visti polverizzare quasi 200 concerti in appena sedici mesi, nell’aprile 1970 i Led Zeppelin si concessero un periodo di totale distacco dalla vita on the road.
Page e Plant, in particolare, decisero di ritirarsi in completo isolamento scegliendo un luogo che offrisse loro la possibilità di rigenerarsi, in modo da dare anche nuova linfa alla loro creatività. Su suggerimento di Plant, che da bambino era solito trascorrervi le vacanze, i due presero le rispettive famiglie e due roadies e si rifugiarono in un cottage di pietra sperduto tra le colline della Snowdonia, nel nord del Galles, risalente al 1700 e chiamato Bron-Yr-Aur – seno d’oro o collina d’oro, in lingua gallese – privo persino della corrente elettrica.
Liberi da ogni impegno e lontanissimi dal mondo per così dire civilizzato, per due settimane Page e Plant fecero vita agreste rimanendo completamente immersi nella natura, facendo lunghe passeggiate per prati e boschi e trascorrendo le serate suonando le chitarre e bevendo sidro davanti al grande focolare della casa. Non fu difficile lasciarsi pervadere dalla magia delle colline in fiore: ispirati dall’aria della dolce primavera Gallese, sbocciarono così i brani di Led Zeppelin III.
Page e Plant si resero perfettamente conto di quanto delicato fosse il feeling su cui le nuove idee erano nate, così che una volta rientrati a Londra e recuperati Jones e Bonham si tennero alla larga dal chiuso degli studi di registrazione; preferirono piuttosto affittare uno studio di registrazione mobile e continuare il loro ritiro sabbatico in un’austera villa di campagna a Headley Grange, nelle campagne dell’East Hampshire. La quiete della campagna inglese e la ritrovata unità del gruppo ricrearono alla perfezione l’atmosfera del cottage di Bron-Yr-Aur, e in appena un mese il disco fu pronto: con il fondamentale contributo di Jones e Bonham, i nuovi brani raggiunsero una complessità straordinaria mescolando rock pesante, blues, west-coast, skiffle, folk britannico e country, non di rado fusi tra loro in modo armonioso ma comunque mantenendo una netta soluzione di continuità tra un brano e l’altro, contrariamente a quanto era invece avvenuto col disco precedente.
In linea con la tradizione dei violenti incipit dei dischi del gruppo, Led Zeppelin III si apre con l’urlo guerriero di Immigrant Song.
La struttura del brano, incentrata su un martellante riff di page, era già pronta da tempo ma trovò una sua identità lirica nel giugno del 1970 dopo due concerti tenuti dal gruppo a Reykjavik, in Islanda: impressionato dalle fortissime suggestioni dei luoghi, Plant compose dei versi epici ispirati alle saghe vichinghe e più in generale alla mitologia norrena, avendo anche l’intuizione di concretizzare efficacemente queste immagini attraverso le celebri “grida di battaglia” che introducono le strofe. Si tratta uno degli episodi più noti in assoluto dell’intera discografia del gruppo, con il suo andamento percussivo e stringente, e assume fondamentale rilievo per aver costituito il primo caso in assoluto di fusione tra hard rock e tematiche legate alla mitologia. A cominciare da quel “Martello degli Dei” che l’immaginario collettivo ha istantaneamente associato alla potenza dei Led Zeppelin, in particolare alla furia distruttrice del loro batterista, le immagini evocate da Plant con i suoi versi e con la sua stessa interpretazione sarebbero divenute veri e propri topoi da cui intere generazioni di artisti heavy metal avrebbero attinto a piene mani nei decenni successivi, dando letteralmente vita a veri e propri filoni del genere come ad esempio l’epic.
Viene così segnato un deciso cambio di passo nella gamma espressiva del gruppo: se prima la chiave dell’essenza musicale dei Led Zeppelin era linearmente racchiusa nella formula soft-hard, a partire da Led Zeppelin III tale formula esplode letteralmente in una miriade di umori, colori e immagini di estrema complessità, seppur viranti verso tinte decisamente fosche. Si tratta di una constatazione che tende a passare inosservata ma che assume un’evidenza notevole se ci si sofferma con attenzione a considerare l’insieme: dal profilo musicale l’intero LP è un continuo e irrazionale alternarsi di atmosfere insolitamente cupe con altre straordinariamente gioiose e splendenti. Come se ciò non bastasse, a risultare inquietante sopra ogni altra cosa è la completa dissociazione tra il tenore delle musiche e quello dei testi, all’interno di molti brani, ricercata in modo troppo sistematico ed accentuato per poter essere casuale.
Si prenda il caso di Friends, secondo episodio del LP. Il suo testo è una splendente apologia hippy dei rapporti umani, con encomiabili riferimenti al valore dell’amicizia e alla sua purezza, ma l’interpretazione vocale che la conduce è inspiegabilmente tesa e affannata: soprattutto, l’accompagnamento è affidato a un giro di chitarra acustica ipnotico e ossessivo, composto su una delle solite accordature alterate cui Page era solito fare ricorso, al quale si addiziona un arrangiamento orchestrale arcano e nebuloso, dalle venature orientali, che accresce a dismisura il senso di smarrimento e inquietudine.
Caso diametralmente opposto invece per quanto riguarda la splendida Gallows Pole (lett. “Palo della forca”), brano folk attinto dal repertorio tradizionale e profondamente riarrangiato dal gruppo: il giro di chitarra acustica viene sapientemente sviluppato attraverso l’uso di accordi aperti, evocanti atmosfere tipiche del folk celtico, le quali si amalgamano con singolare armoniosità al frenetico e spensierato piglio country del brano, a sua volta accentuato dalle sovrapposizioni di banjo e mandolino e formidabilmente sospinto dalla potenti percussioni di Bonham. A questa atmosfera allegra e giocosa si contrappone un testo semplicemente agghiacciante, incentrato sulla storia di un condannato a morte che, in preda alla disperazione per l’avvicinarsi della sua impiccagione, tenta di corrompere il boia offrendogli tutti i suoi averi e spingendo persino sua sorella a concederglisi.
Con quest’ultimo che, in epilogo, dice al condannato «tuo fratello mi ha portato l’argento e tua sorella mi ha riscaldato l’anima/ma ora me la rido e tiro forte mentre ti vedo penzolare dalla forca», prima di lasciare il posto a una serie di divagazioni affidate a vocalizzi e a una spigolosa chitarra sovraccarica di fuzz.
Analogamente, seppur in modo meno marcato, avviene in That’s The Way, luminosa e morbida ballata west-coast che dal vivo diventerà uno dei punti centrali del set acustico che gli Zeppelin erano soliti proporre, al fine di smorzare il ritmo delle loro torrenziali esibizioni: la tematica del brano, delineata dalla voce di Plant che è piana ma non distesa, mescola tematiche ambientaliste ed ecologiste a riflessioni dal piglio malinconico, ermetiche e introspettive (all that lives is born to die/and so I say to you that nothing really matters/and all you do is stand and cry), di difficile lettura soprattutto alla luce del singolare contrasto con l’aria primaverile e profumata di fiori che gli intrecci di chitarra acustica e mandolino portano invece con sé.
Come se tutti questi spunti non fossero già stati più che sufficienti, nei solchi vuoti della prima edizione del disco venne fatta risuonare una frase in inglese arcaico «do what thou wilt, so mote it be» – “fa ciò che vuoi, così potrai essere”: era, questa, la massima di riferimento di Aleister Crowley, occultista britannico vissuto a cavallo tra ottocento e novecento e noto per le sue teorie di liberazione dell’individuo e le sue oscure pratiche di magia nera. Page era estremamente attratto dalla sua figura e iniziò a studiarne a fondo le opere, mettendo insieme la più grande collezione esistente di oggetti a lui appartenuti e suoi manoscritti e acquistando la Boleskine House, misteriosa abitazione situata sulle rive del lago di Lochness e a lui appartenuta, nonostante gli avvertimenti della gente del luogo che la considerava una casa maledetta. Arrivando persino a chiamare sua figlia Scarlet, in ossequio alla figura della Scarlet Woman delineata da Crowley e rappresentante l’impulso sessuale femminile, la donna liberata e la Madre Terra.
Era inevitabile che una simile aura avrebbe condizionato pesantemente tutto il resto: fu proprio questo, assieme al successo repentino e sconvolgente e all’atmosfera sinistra e inquietante che a partire da Led Zeppelin III iniziò ad avvolgere la loro musica, ad alimentare a dismisura le voci che associavano il gruppo a oscure pratiche di magia nera e irriferibili patti col demonio. Non è difficile immaginare quanto queste voci possano essersi alimentate a seguito delle tragedie che colpirono i Led Zeppelin tra il 1976 e il 1980.
A contrasto con l’atmosfera fosca dei brani di cui si è detto si colloca l’altra metà del repertorio, più coerente nella sua costruzione ma comunque impostata su frequenze assai più ampie rispetto a quelle dei lavori precedenti. Sul versante più eminentemente hard spiccano Celebration Day e Out On The Tiles: la prima, con il suo schizofrenico riff di chitarra e il suo irresistibile assolo, trovò efficacemente spazio sul palcoscenico grazie al suo andamento trascinante e giocoso; identica sorte conobbe la seconda, scanzonata e distesa nonostante l’impianto musicale massiccio e rimbombante, spesso fusa assieme a Moby Dick a rimarcarne la similitudine degli umori e il notevole contributo offerto da Bonham alla sua stesura.
A fare da contrappeso si collocano episodi acustici come Tangerine, Bron-Y-Aur Stomp e Hats Off To (Roy) Harper.
Tangerine è una delicata e tenera ballad in perfetto stile west-coast che Page aveva abbozzato sin dai tempi con gli Yardbirds, entrata a buon diritto tra i pezzi più celebri del gruppo e divenuta istantaneamente una delle canzoni più amate dai fan. La sua costruzione è di grandissimo effetto, a partire dal delizioso accompagnamento di chitarra acustica intessuto da Page, che brilla particolarmente nell’incipit e nella chiusura, passando per la malinconica interpretazione di Plant, narrante dello smarrimento per un amore finito; per concludere con il piglio nostalgico dell’assolo di chitarra elettrica e i tenui singulti di pedal steel, a sottolinearne i caratteri soffusi e sfumati.
Discorso diverso per Bron-Y-Aur Stomp, delizioso brano country incentrato sul tema dell’amicizia tra l’uomo e l’animale e dedicato nientemeno che a Stryder, il cane di Robert Plant (?). Musicalmente il brano è un’autentica vetrina per Page, che mostra tutto il suo virtuosismo sfoggiando una notevole padronanza del fingerpicking alle prese con l’ennesima accordatura “impossibile” di chitarra acustica, adeguatamente sostenuto dal contrabbasso di Jones e dalle poderose salve di cassa e charleston di Bonham, a sottolinearne il piglio stomp (appunto).
Poco plausibile invece la chiusura affidata a Hats Off To (Roy) Harper, sconclusionato blues suonato in slide e dedicato al cantante folk Roy Harper, col quale il gruppo aveva stretto amicizia al Festival di Bath; oltre a rimanere discutibile il suo inserimento in coda al disco, in luogo di brani di ben altra levatura che invece sarebbero stati pubblicati solo successivamente o addirittura lasciati inediti, il disappunto aumenta nell’apprendere dell’esistenza di un’ottima alternate take del brano che il gruppo decise inspiegabilmente di lasciare sepolta tra i nastri inediti anziché preferirla alla improbabile versione poi pubblicata.
L’apice del disco viene raggiunto con la straziante Since I’ve Been Loving You, lento e appassionato blues dalla struttura articolata e assai originale, considerato a piena ragione una delle pietre angolari su cui la leggenda del gruppo si fonda. Caratterizzata da una base musicale ampia e dilatata e da un andamento languido e infuocato, la canzone si impose da subito nella sua natura di punto fermo capace di incarnare al massimo le capacità compositive ed espressive del gruppo: i grandi spazi offerti dalla sua struttura risultarono poi particolarmente adatti alle variazioni e non a caso, dal vivo, il brano veniva regolarmente trasfigurato dando fuoco alle polveri dell’improvvisazione.
Al fine di valorizzarne al massimo il bruciante impatto emotivo e la devastante visceralità, si decise di fissare il brano su nastro adoperando gli stessi criteri adoperati per disco d’esordio: registrazione in presa diretta e buona la prima, in altre parole, con l’unica eccezione dell’assolo di chitarra che venne sovra inciso. Per quanto riguarda la sezione di organo Hammond, John Paul Jones ne approfittò per sfoggiare tutta la sua grandiosa abilità di polistrumentista: parimenti a quanto sarebbe successo dal vivo, per poter conciliare più ruoli Jones si divise suonando contemporaneamente l’Hammond e un basso a pedaliera Fender. Dal canto suo, Page mostra tutta la sua maestria nel riuscire a raggiungere progressivamente le corde più intime del tema, misurando in modo costante il crescendo dei suoi infuocati fraseggi blues fino alla dilagante intensità dell’assolo e all’esplodere del lacerante arpeggio finale; Plant si rende perfetto contraltare in tal senso producendosi in una delle sue interpretazioni più ardenti e appassionate, elevando la sua consumata timbrica vocale alla pari della chitarra e riuscendo a materializzare alla perfezione il travaglio, la divorante passione e lo strazio di un uomo per una donna crudele che non gli dà tregua.
L’approdo al nuovo corso con un disco sfaccettato e pervaso di atmosfere così contrastanti come quelle di Led Zeppelin III sortì l’effetto di disorientare il pubblico e offrì nuovi pretesti alla critica musicale per fare a pezzi il gruppo con un diluvio di stroncature ingenerose e affrettate, al punto che per il successivo anno e mezzo i Led Zeppelin si rifiutarono categoricamente di rilasciare interviste. La storia avrebbe reso giustizia al disco, che sarebbe stato ampiamente apprezzato e celebrato nel medio e lungo periodo anche in virtù del suo ruolo di momento cruciale nell’evoluzione del gruppo, con vendite che avrebbero sfiorato i dieci milioni di copie. Dando alla luce un disco tanto lungimirante e ambizioso ma così poco in linea con i due precedenti, il gruppo aveva intrapreso una chìna estremamente scoscesa e ne era giustamente orgoglioso: quel terzo LP testimoniava con forza come la dimensione musicale e compositiva dei Led Zeppelin comprendesse in sé molto più che una manciata di riff distruttivi e la capacità di mettere a ferro e fuoco un palcoscenico per quattro ore filate.
Led Zeppelin III era il simbolo della libertà del gruppo di perseguire e sviluppare autonomamente il proprio sconfinato universo musicale, senza compromessi che non fossero dettati da ragioni creative: e pazienza se il risultato cozzava frontalmente con quel che critica e pubblico si aspettavano.
L’amarezza per l’incomprensione generale si rivelò in realtà un motivo in più per insistere con maggiore convinzione lungo quei gradini così scoscesi: nessuno, però – forse neppure loro stessi, alle prese com’erano con le stroncature che piovevano da ogni parte – poteva immaginare che i gradini che stavano salendo fossero proprio quelli della Scala per il Paradiso.
Tracklist:
1. Immigrant Song
2. Friends
3. Celebration Day
4. Since I’ve Been Loving You
5. Out On The Tiles
6. Gallows Pole
7. Tangerine
8. That’s The Way
9. Bron-Y-Aur Stomp
10. Hats Off to (Roy) Harper